In questi giorni mi è capitato di ricevere dei messaggi e delle mail di ringraziamento per il percorso che insieme alla mia amica e collega Amalia Gaito abbiamo pensato sul tema donne e creatività “Il Filo Rosso – Rigeneriamo il nostro futuro” e apprezzamenti sugli articoli del blog. La mail più significativa è stata quella di una mia collega che mi ha detto: “sei proprio brava a fare queste attività, si vede che ci metti anima, cuore e testa. la creatività ha un seme in te che cresce ogni giorno e riesci anche a contagiare chi ti è accanto. ti auguro di poter realizzare i tuoi sogni”. Non riporto questi fatti per farne vanto (per quanto è ovvio che mi facciano un grande piacere) ma per introdurre un tema che mi sta molto a cuore: l’importanza di scoprire la propria chiamata interiore. In questa quarantena ho capito ancora di più che
se facciamo ciò che ci scalda il cuore rendiamo la nostra vita e quella degli altri migliore.
Facile dirlo.. difficile a farsi e realizzarsi potrebbe commentare qualcuno. Tutti vorremmo fare ciò che ci piace ma purtroppo non sempre questo combacia con il lavoro che stiamo svolgendo, o ancora di più, a qualcuno basterebbe avere un lavoro e in questo momento non è scontato neanche quello. Tutti pensieri veri e assolutamente concreti e attuali.
Faccio una premessa, il tema dell’orientamento, dell’accompagnamento alle scelte professionali, il career counseling è molto vasto e non ho la pretesa di essere esaustiva in questo articolo. Non toccherò interi temi come la conoscenza del mercato e dei cambiamenti del mondo del lavoro, l’esplorazione delle professioni, gli strumenti orientativi, di bilancio di competenze, di empowerment, la prevenzione e l’orientamento precoce, le competenze da coltivare per un buon processo di scelta e molto altro ancora. Sarebbe interessante esplorarli e approfondirli in altre occasioni ma per oggi mi limiterò a raccontare la mia esperienza personale e di orientatrice e di aprire alcune finestre per sollecitare qualche riflessione.
Nei miei ultimi 9 anni mi sono occupata di progetti di orientamento alle scelte formative e di accompagnamento alla transizione, ricerca, inserimento lavorativo per giovani e adulti. Se dovessi fare una sintesi, andando per estremi, potrei dividere le esperienze ascoltate dalle persone che ho accompagnato in tre situazioni:
- A) Chi accetta qualsiasi lavoro (posto che lo trovi) e se lo fa andare bene per poter portare a casa un guadagno che permetta il sostentamento.
- B) Chi trova il bello e si appassiona al lavoro che si trova a svolgere anche se non è quello che avrebbe scelto.
- C) Chi sceglie di riflettere su chi vuole essere come persona e come professionista e progetta come perseguire quell’obiettivo con grande impegno e costanza, accettando anche periodi o mansioni in parte di compromesso, funzionali a raggiungere il traguardo che si prefigge.
Di solito il primo gruppo è formato da persone che non si sentono realizzate e appagate per il lavoro svolto, sono spesso in una situazione di disoccupazione o di rimbalzo tra lavori precari, poco continuativi e mal pagati.
Il secondo gruppo è un gruppo formato da persone molto resilienti e ottimiste, che sanno trarre il meglio da ciò che hanno. Ricordo un ragazzo poco più che ventenne che in un laboratorio di ricerca attiva mi disse che per lui il lavoro è un Valore di per sé e che al di là di quale lavoro uno svolga, bisogna farlo bene e onorarlo. Questo pensiero mi aveva colpito per la sua profondità. La vera domanda per il gruppo B è se questa situazione possa durare per sempre, o se arriverà un momento in cui “farsi andare bene ciò che si fa”, non sarà più sufficiente per sentirsi pienamente soddisfatti.
Nella mia esperienza, il gruppo C è costituito da chi del gruppo A e B (ma non solo ovviamente) ha scelto di ascoltarsi, di mettere al centro se stesso/a e di progettare il proprio presente e futuro professionale.
Ho usato tre termini non casualmente:
Ascoltarsi, mettere al centro se stessi, progettare
Ascoltarsi: nelle mie attività di orientamento spesso chiedo alla persona di ricongiungersi con il bambino/a poi con l’adolescente che è stato, di ricordarsi quali giochi amava fare, chi voleva diventare da grande, quali figure lo/la ispiravano. Per capire chi vorremmo essere oggi è utile partire dal ripercorrere la propria storia di vita.
Se penso a me stessa, ricordo che amavo disegnare: sul muro e sui divani a 18 mesi, su qualunque foglio più avanti e che il mio programma preferito era art-attack ?. Producevo biglietti regalo 3d, portapenne con i rotoli di carta-igienica e qualsiasi pastrocchio mi venisse in mente. Sognavo di diventare una stilista e disegnavo i vestiti da sposa per le mie Barbie. Ma amavo anche giocare con centinaia di omini e inventare storie. Ogni tanto ne scrivevo una che portavo in classe alla maestra da leggere ai compagni; ho anche vinto un premio letterario in terza media con un racconto struggente di un amico (per fortuna inventato) morto di tumore le cui ceneri furono sparse nell’oceano…per dire, piccoli ottimisti in erba! Crescendo mi perdevo nell’ ascoltare coetanei e adulti parlare, a casa, sul pullman, a scuola. Ascoltavo e cercavo di ricongiungere pezzi di storie di vita, mi divertivo a capire chi c’era dall’altra parte del telefono e scoprire dove stava andando o che lavoro svolgeva lo sconosciuto seduto di fianco a me sul pullman. Osservavo, osservavo tutto. Da adolescente e giovane adulta mi sono appassionata ai temi sociali, all’impegno associativo nella Gioc con i giovani poco ascoltati, e ho maturato con il tempo l’interesse verso il ruolo delle donne nella società.
Oggi sono una psicologa e orientatrice professionale, lavoro in ambito pastorale e sociale, ho una macchina da cucire di fianco al letto, un armadio pieno di materiali creativi di ogni genere, vorrei fare della mia professione l’incontro tra benessere psicologico e creatività, infine cerco di dare voce alla storia di altre donne come me in progetti come Donne in Circolo.
Se riguardo da questa prospettiva il mio presente, posso dire che i semi di ciò che volevo essere non erano da ricercare lontano, ma in ciò che ho sempre amato. Se penso alle condizioni che lo hanno permesso, ritengo di aver avuto la fortuna di crescere in condizioni sociali e famigliari facilitanti (non tanto per ceto sociale ma per il sostegno che ho sempre ricevuto nell’ ascoltare e assecondare le mie scelte) e di sicuro molto ha fatto e fa la mia disposizione personale alla curiosità, all’ esplorazione, alla formazione, al mettermi in gioco e ad aprirmi a nuove possibilità. Non è però un processo concluso ma anzi in continuo divenire…
Mettere al centro se stessi: tante volte, soprattutto i giovani in crisi con il proprio percorso formativo o con abbandoni scolastici alle spalle, mi raccontano di scelte fatte in maniera superficiale per seguire l’amico in quella scuola o per assecondare il desiderio dei propri genitori. La scuola ancora troppo spesso rischia essere luogo di giudizio in cui non viene promossa una seria riflessione su di sé ma piuttosto sui voti presi in questa o quella materia per indirizzare le scelte successive.
Il risultato è, nel migliore dei casi, di ritrovarsi con un titolo di studio, addirittura una laurea, di cui importa poco, che condurrà a fare un lavoro che non appaga o addirittura a chiudere il foglio di carta nel cassetto per poi fare totalmente altro; nelle situazioni peggiori si finisce con un abbandono degli studi. Ricordo di un giovane liceale che era in totale conflitto tra il suo desiderio di fare lettere all’università per poi realizzare il sogno di insegnare e la volontà della famiglia che lui diventasse un avvocato. Alla fine il suo dilemma interiore lo portò a scegliere giurisprudenza per accontentare la nonna e il papà, con enormi ritardi sui tempi di laurea e una sua insoddisfazione personale.
Il mettere al centro se stessi, in questo caso, è strettamente collegato all’ascoltarsi ma per certi versi è anche una responsabilità sociale:
Oggi più che mai abbiamo bisogno di persone che svolgano bene il proprio lavoro perché ne sono appassionati, interessati, perché hanno voglia di crescere, formarsi.
Pensate che differenza fa quando entriamo in relazione con un medico che fa del suo lavoro una missione, ma anche con la parrucchiera che sa immaginarci con il colore e il taglio migliori per noi e che punta sull’ innovazione continua della sua attività, con l’insegnante che sogna per i suoi studenti ciò che loro ancora non riescono a vedere in se stessi e che ricerca metodi per coinvolgere e appassionare tutti i ragazzi e così via..
Fare del proprio lavoro un’arte, rende se stessi migliori e contribuisce a costruire una società migliore.
Progettare: questa è la parola più complessa ma anche essenziale. Non c’è sogno, desiderio, obiettivo professionale che possa realizzarsi se non c’è una visione, se non si lavora a un progetto possibile, e non si delinea un percorso per raggiungerlo.
Questo vale anche per chi come me, fa proprio questo lavoro. Io stessa ho scelto di dedicarmi durante la mia esperienza professionale, dei percorsi di bilancio di competenze, di coaching o di riflessione e promozione di me stessa individuali e di gruppo. Il confronto con professionisti e con altre persone in ricerca come noi, credo sia una risorsa enorme per riscoprirsi capaci di affrontare anche le sfide più complesse e per prepararsi al cambiamento.
Il periodo storico che stiamo affrontando, questa emergenza mondiale ci richiama fortemente al bisogno di attrezzarci e di adottare nuove strategie di fronteggiamento degli eventi che possono accadere anche a livello lavorativo.
Riporto uno stralcio di un mio discorso di apertura a un convegno della Pastorale Sociale e del Lavoro di Torino dell’ottobre scorso che ritengo ancora più attuale oggi:
“Compito di chi accompagna professionalmente le persone nelle transizioni della vita è quella di aiutarle ad affrontare il cambiamento e di attrezzarle, più in generale, al cambiamento in una prospettiva che tiene conto della persona nel suo complesso con la sua storia, i suoi valori, situato nel contesto storico e ambientale in cui vive. Centrale diventa allora il concetto di progetto e di accompagnamento lungo tutta la vita, in un’ottica di prevenzione al rischio di esclusione sociale e di allenamento ad affrontare l’unicità delle situazioni in cui sono coinvolte e a prevederle. Il cambiamento non è solo occupazionale ma di ampliamento della propria prospettiva e visione. Accompagnare significa aiutare le persone a autodeterminare il proprio futuro professionale, progettandolo con speranza e gradualità. Il futuro non può essere visto come destino, deve diventare scelta e progetto. Sempre di più accompagnare al lavoro deve essere visto come un accompagnare le persone ad adattarsi e a fronteggiare il cambiamento, ad ampliare le prospettive e la visione della vita. […] Per cambiare ci vuole TEMPO, tempo prezioso e non sprecato. Tempo dedicato e paziente. Le grandi cose richiedono TEMPO”.
Le grandi cose richiedono tempo.. le persone hanno bisogno di tempo per ascoltarsi, mettere al centro se stessi, progettare… cambiare. Questo pensiero è diventato per me consapevolezza in questo periodo di lockdown in cui ho avuto l’opportunità di rallentare, di dedicare maggior tempo a me, ai miei desideri, timori e ho scoperto che anche la lentezza è un valore.
Proprio a tal proposito, concludo raccontando un pezzo del libro “Storia di una Lumaca che scoprì l’importanza della lentezza” in ricordo del grande scrittore Luis Sepúlveda. L’autore racconta di una lumaca che sceglie di abbandonare il suo gruppo di simili, convinte di essere nel posto più bello del mondo perché semplicemente non sono mai uscite dal proprio prato e ignorano che ci possa essere un posto migliore di quello.
La lumaca decide che vuole avere un nome proprio e capire il senso della sua lentezza. Nel suo percorso, aiutato dalle riflessioni di una tartaruga, sceglie di chiamarsi Ribelle perché, come gli umani che fanno domande scomode, ha scelto di rompere gli schemi della sua esistenza e di cercare un senso più grande.
La lumaca incontra poi un gufo a cui chiede se conosca il perché della sua lentezza. Il gufo le risponde così:
“Tu sei una giovane lumaca e tutto ciò che hai visto, tutto ciò che hai provato, amaro e dolce, pioggia e sole, freddo e notte, è dentro di te, e pesa, ed essendo così piccola quel peso ti rende lenta”.
La stessa lentezza serve alla lumaca per osservare, conoscere altri animali come la tartaruga, la formica, e a scoprire che un grande pericolo mette a rischio la vita delle sue compagne e le mette in salvo. Alla tartaruga che le chiede se abbia capito il senso del suo viaggio e della sua lentezza, lei risponde:
«Credo di sì. La mia lentezza è servita a incontrarti, a farmi dare un nome da te, a farmi mostrare il pericolo, e ora so che devo avvertire le mie compagne».
«È questa determinazione a fare di te una ribelle.» Le risponde la tartaruga.
L’augurio con cui vi lascio allora, è di permetterci, almeno ogni tanto, di essere lente ma determinate lumache ribelli capaci di andare oltre le nostre certezze, di porre domande scomode alla nostra vita, per osare e ricercare ciò che ci realizza davvero.